Malattie croniche, quali competenze specialistiche all’interno degli ospedali?

Leccenews24 pubblica la seconda parte dell’intervento del dott. Mauro Minelli su ‘L’urgenza di nuovi orientamenti formativi e gestionali nella presa in carico ragionata delle malattie a lunga decorrenza’.

Il dott. Mauro Minelli, Professore di Igiene Generale e Applicata, delegato per il Sud Italia della Società Italiana di Medicina Personalizzata, torna a sviscerare quanto emerso dal  XV Rapporto Nazionale sulle Politiche della Cronicità. Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato la prima parte dell’intervista, oggi diamo spazio alla conclusione.
 
Dunque lei ritiene impossibile, all’interno dei nostri ospedali, una integrazione di competenze specialistiche che possano condurre ad una azione medica concertata in favore dei pazienti cronici. Potrebbe dettagliare le ragioni di questa difficoltà apparentemente insormontabile? 
Mi limiterò, nella risposta, ad una riflessione che credo appartenga a tanti di noi e che, fra l’altro, emerge chiaramente dal Rapporto appena pubblicato: oggi la medicina territoriale è incapace di accogliere il singolo paziente, tanto più se cronico, nella sua complessità patologica. Essa si offre come venditrice di "prodotti" isolati e fini a se stessi, come, ad esempio, le procedure diagnostiche e chirurgiche (tutte ordinatamente codificate entro quel tariffario disetico chiamato "DRG"). E, di fronte al fallimento terapeutico, che intanto solletica le fauci voraci e sempre più aggressive della medicina alternativa, liquida il paziente complesso come "psichiatrico" o, nella migliore delle ipotesi, come "portatore di patologia rara", ovvero sfigato costretto a ricorrere a legislazioni speciali, in genere farraginose e incapienti.
Da qui la necessità e l’urgenza della svolta, quella che si richiama ad un nuovo modello di sviluppo che non può non essere esigente tanto sul piano del pensiero, quanto su quello della operatività e dell’impegno concreto e che, in Sanità, prevede il  superamento delle suddivisioni per funzioni e competenze monodisciplinari (reparti specialistici) e la conseguente attuazione di una gestione per processi (percorsi accentrati ed integrati di diagnosi e cura). 
 
Tutto questo interpella attori diversi, individua operatori ai vari livelli e risorse che al momento potrebbero non essere disponibili o comunque pronte ad affrontare e sostenere una sfida così impegnativa…
E’ proprio questo il punto! Occorrono nuovi approcci e nuove soluzioni che non possono non transitare attraverso processi formativi avanzati, approfonditi, competenti, il più possibile calibrati.
Sono ormai  diversi anni che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità continua a fornire trend e statistiche sulla diffusione delle malattie croniche, indicandole come emergenza sanitaria strategica per la stabilità sociale ed economica degli Stati. Ma, nonostante questi warnings autorevoli e reiterati, nessuno sembra interessarsi alle cause del fenomeno e alle possibili azioni di controllo. Così come evidenziato anche nel Rapporto 2017, gli unici elementi presi in considerazione dagli analisti per giustificarne la progressione riguardano i cosiddetti “fattori di rischio” (alimentazione, obesità, fumo, errato stile di vita). Ma un'attenzione esclusivamente puntata sui fattori di rischio e non sulle cause delle patologie, rischia di rendere  inconsistenti, frammentarie e insufficienti le azioni di contenimento dei fenomeni patologici infiammatori di carattere pandemico.
 
Come se non bastasse, le valutazioni sull'incremento costante delle malattie infiammatorie a lunga decorrenza si basano su concetti non sempre rispondenti alla realtà, come quello che vede l'aumento dell'incidenza determinato dall'invecchiamento della popolazione, mentre nella realtà l'incidenza delle patologie croniche riguarda tutte le fascia di età della popolazione. La condizione di anzianità, associata ad un naturale indebolimento dell'organismo e alla perdita di sostanze naturali non reintegrabili con gli alimenti, semmai porta alla luce situazioni patologiche pregresse. E, d‘altro canto, confrontando la frequenza di aumento degli ammalati con la percentuale degli anziani, si scopre che i due valori non sono proporzionali e non viaggiano di pari passo.
Permangono pertanto valutazioni, da parte delle organizzazioni sanitarie, poco o affatto rispondenti alla realtà, poiché fondate su modelli ormai superati e privi della verifica e dell'analisi aggiornata dei fattori determinanti, magari in precedenza non rilevabili a causa di limiti scientifici attualmente, però, in gran parte chiariti.
 
Quali soluzioni, a suo avviso, potrebbero essere previste per ovviare a questo gap organizzativo e funzionale, i cui limiti emergono nella evidenza dei riscontri numerici e valoriali forniti dal Rapporto “in cronica attesa”?
Una prima, credibile ipotesi operativa potrebbe prevedere, da un lato, la riconfigurazione strutturale, tecnologica, organizzativa e soprattutto culturale degli ospedali per un uso più appropriato dei posti letto per ACUTI, e dall’altro l’individuazione di una nuova filosofia organizzativa del sistema da dedicare alla cronicità, in grado di garantire appropriatezza delle prestazioni ed assistenza integrata con conseguente riduzione di spese, disagi, disparità di diagnosi e possibilità di errori cognitivi
L’idea è quella di tendere verso una rete di presidi “dedicati” snella, basata sul modello “Hub & Spoke”, con una configurazione interna che abbia come riferimento centrale le esigenze del paziente cronico, collegata a un rafforzato sistema di assistenza primaria attraverso la condivisione di obiettivi e di nuove linee guida, e logisticamente fondata sull’utilizzo – perché no! – di quegli stabilimenti ospedalieri che, già destinati alla dismissione, potrebbero recuperare una nuova dignità fisionomica e funzionale, tra l’altro decongestionando dal pesante fardello della cronicità gli ospedali per acuti.
 
Si tratterebbe di  prevedere la creazione di un network che trova la propria ragion d’essere in una integrazione logisticamente accentrata tra posti di degenza e specialistica territoriale, in grado di fornire ai degenti, proprio perché impostato sui criteri della interdisciplinarità,  le necessarie prestazioni consulenziali in formulazione organizzata e senza moltiplicazioni incontrollate di  visite, esami, prestazioni diagnostiche o ricoveri in reparti diversi.
 
Si tratta di reinvestire, ancora una volta e con più forte determinazione, su un pensiero antico eppure sempre nuovo. Quel pensiero che, anche e soprattutto in Sanità, ci obbliga a creare un rapporto interattivo comune: ogni competenza e ogni disciplina, pur conservando la propria integrità, deve uscire da sé, dalla propria mera competenza, dal proprio possesso di verità, per una incidente capacità di verità, più intera e più intensa! Dunque, ripensare il pensiero: pensare a percorsi in reciprocità, in un’inclusione relazionale che aiuti legami e fecondi connessioni, non solo tra persone, ma anche tra approcci disciplinari, non rassegnandoci allo specialismo, al settorialismo.
Anche il sapere vuol essere coniugato in una forma unitiva, agapica e sapienziale per incidere sull’unica realtà che patisce la frammentazione, in favore di ogni uomo e di tutto l’uomo!



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